Io non scappavo da un fallimento, da qualcuno che mi voleva male, da una moglie acida e spenta, da un lavoro di merda e da una vita priva di soddisfazioni. Stavo scappando dal bene. Da quello che tutti mi avevano raccontato essere il bene. Un bene con diversi compromessi, certo. Ma il bene.


Andrea Marai è un giornalista in carriera. Appassionato, ambizioso, iperconnesso, vive schiacciato dal suo presente inquieto. Orfano del suo migliore amico, morto troppo presto e in circostanze poco chiare, pesca a piene mani dalle opportunità che la vita gli presenta, l’unico modo che conosce per sfuggire alla mediocrità. Francesca, sua moglie, lo ama e da lui vorrebbe un figlio eppure fatica a capirlo, ostinandosi a leggere in questa frenesia solo insoddisfazione. Le bugie sono un velo dietro cui il loro matrimonio si sta pian piano sgretolando. Ma Andrea è distratto, perché ha appena scritto l’intervista perfetta e sta per vincere il premio più ambito. Poi, proprio lì, sul palco della consacrazione, il crollo. Il momento in cui tutto diventa nero e liquido, l’istante esatto in cui il corpo dice «no». Quello che viene dopo è una metamorfosi dolorosa come una crisi d’astinenza, e poi una fuga rocambolesca verso il mare, verso un’altra vita possibile. Forse per ritrovare se stessi. Forse per cercare qualcos’altro.


Il cielo era ancora luminoso, dovevano essere forse le quattro del pomeriggio, quando smisi di sentire tutto quello che stavo sentendo fino a quel momento.
Smisi di sentire le vesciche ai piedi che si erano formate dopo i primi chilometri con le scarpe sbagliate. Non sentivo più le caviglie gonfie e doloranti, i muscoli delle gambe iniettati di acido lattico, il pizzicore dei graffi provocati dai rovi e il pulsare della ferita sul gomito destro. Ero caduto in un fosso, scavalcando la massicciata della ferrovia, 2 chilometri dopo la stazione di Mondovì. Smisi di sentire la mia voce che mi rimproverava per quanto ero stato stupido, un vero idiota, a sovrastimare a tal punto le mie capacità atletiche. Smisi di guardare le pietre miliari lungo la provinciale, ed evitai così di fare il conto ad alta voce dei chilometri percorsi. Non sapevo esattamente dove andare, quindi era inutile. A poco a poco lasciai perdere completamente il mio cervello. Continuava a formulare pensieri ossessivi a proposito del fatto che presto sarei crollato, svenuto, collassato e magari anche morto lì, dietro la prossima curva. Ma non era vero.


Ecco perché ho scritto "L'undicesimo comandamento"